martedì 17 luglio 2012

PAGANESIMI ELETTRICI - Wim Wenders e il Fauno - Pt.2

 "Wim Wenders e il Fauno" è l'ultimo racconto del ciclo "Paganesimi Elettrici". L'E-Book integrale è già disponibile qui, mentre per approfondire la genesi e il significato dei racconti il post di riferimento è questo




Forse così la pensavano anche Chris Karrer, un polistrumentista free jazz, busker di vocazione eppure ambizioso e caparbio, e John Weinzierl, un ottimo chitarrista Rock in grado di spaziare dai raga acidi americani al più epico metal europeo; Peter Leopold era un batterista di formazione jazzistica che non ne voleva sapere di 4/4 e di ritmi pari, conferendo ad ogni canzone una caracollate ritmica da danza asburgica. Erano questi tre il cuore musicale dagli Amon Duul II; a loro si era aggiunta in breve tempo una pletora di ottimi comprimari come la cantante Renate Knaup, Yoko Ono senza impalcature concettuali e con un sex appeal dark e ben più sinistro di Grace Slik; Falk Rogner, un illustratore abile nel collage e nella manipolazione della fotografia che a tempo perso suonava uno scassato organetto Farfisa e si dilettava ad esplorare le infinite possibilità timbriche del sintetizzatore, offrendo al gruppo un’atmosfera elettronica molto low fi, da garage band con aspirazioni progressive, in grado di abbozzare armonie sottese e affossate nel mix, capaci di fuoriuscire in maniera inaspettata come l’immagine non riflessa di un fantasma nello specchio. Dave Anderson, cittadino inglese in territorio nemico, reclutato dai Kippington Lodge di cui era roadie, era il collegamento del gruppo con la scena Britannica ed in particolar modo con gli squatter drogati di Ladbroke Grove che si stavano organizzando in un ensemble di rock aerospaziale che presto sarebbe stato il braccio inglese degli Amon Duul: gli Hawkwind. C’era poi una schiera di percussionisti e freak multicolori fuoriusciti dalla sponda politica della comune subito dopo la pantagruelica incisione di Psychedelic Underground, una session continua di oltre venti ore, quasi un’installazione artistica permanente piuttosto che una seduta di incisione. Questo era il pittoresco plotone che occupava parte dell’ampia cantina del Principe, condividendo il nascondiglio con centinaia di altri diseredati, cercando di esorcizzare con la loro musica sballata una realtà troppo orrenda per sembrare vera.
Dalla parte opposta stava l’uomo con la macchina da presa, perennemente accesa, perennemente fissa sulla musica; impassibile nell’immagazzinare immagini che un giorno, forse, sarebbero diventate ricordi.
Dopo un momento di silenzio seguito ad una forte esplosione udita distintamente da tutti, il gruppo riattaccò con la musica, sperando di oscurare almeno il fragore delle bombe distanti.
Quello di Den Guten, Schönen, Wahren è un western nordico, con accenni all’epopea nera di Calvary dei Quicksilver, intriso del maligno canto di una Baba Yaga tentatrice che disturba il sonno dei bambini: una suadente doppiezza melliflua, che distorce il già caricaturale canto di Rob Tyner in Ramblin' Rose. Poi, quello che comincia come un brano sottile, elettroacustico, si assesta su un riff di poderoso hard-rock e sfocia nel ritornello di un’orchestrina bavarese che suona ubriaca in una bierfest di provincia, con l’aggiunta del violino demoniaco di Karrer e la solita voce lontana di Renate, dispersa nei meandri di un dedalo di visioni bibliche piegate al servizio della tremenda ideologia della Svastica: così i bambini che corrono a Lui si risvegliano come in un incubo, con la testa rasata, al pianto delle madri lontane, offerti in sacrificio al Moloch. Tutto per servire il Buono, il Bello e il Vero, storpiando la frase che fu incisa sul frontone del teatro Alte Oper di Francoforte, che ora giaceva riverso tra i bombardamenti.

Kommet zuhauf und seht ihn euch an
Das Haupt kahlgeschoren und lächelt noch
Frisch ans Werk, 's ist gleich getan
Hängt ihn auf, den geilen Moloch – ja!

Alla fine ci pensa Weinzierl a dare il colpo di grazia con un orrendo, deforme, cacofonico, assolo di distorsore: dei Grand Funk paranoici, distrutti da acido e benzedrine, concludono il brano in rapida assolvenza.
Dietro l’occhio immobile della cinepresa, il giovane regista dalla zazzera bionda montava scatole argentate circolari di pellicola provocando, di tanto in tanto, un fragore metallico incontrollato che faceva scendere un brivido lungo le schiene dei rifugiati. Nell’angolo opposto dello stanzone, una giovane famiglia mediterranea, avvolta in manti dai colori sgargianti, cullava la quiete di due neonati con cantilene dalla lingua strana.
Gli squadroni della morte di Hildebrandt stavano certamente passando al setaccio i boschi vicini, sfogando la loro frustrazione su ogni vivente gli si parasse davanti.
Il Principe Viaggiatore aveva concesso agli Amon Duul di suonare ancora per un po’, sperando di allentare quella tensione spasmodica e afosa che si respirava da giorni nel chiuso di quel nascondiglio. Eppure l’Arte di quei ragazzi non allineati si portava ancora dentro quel carico di angosce e rimorsi sommersi che il Reich aveva steso su tutta la Germania come un pesante sudario scuro. La loro musica voleva essere la stessa degli Alleati, degli Inglesi, degli Americani: una nuova razza di uomini che per la prima volta mettevano piede, armati, nel cuore dell’Europa,  portandosi dietro Chewing gum, Lucky Strike, Coca Cola e Rock n’ Roll. Oggetti seducenti di rilucente capitalismo, tutti rigorosamente senza limite nè istruzioni per l’uso; tanto più la musica, che i tedeschi trattavano con la stessa curiosa meraviglia con cui i bambini maneggiano i cubi per le costruzioni: un epocale fase orale nella quale un nuovo Rock veniva smontato e rimontato, impugnato con la stessa imperizia con cui i neri impararono, a modo loro, a suonare chitarra e tromba, gli strumenti portati dai bianchi conquistatori.
La loro versione di quel Rock n’ Roll era modellata sul duro accento tedesco; sostituiva, alle solari visioni cortesi del regno di Artù, i rituali di una demonologia slava e mediorientale ben più drammatica e cosmica; rifiutava l’illuministico equilibrio del preciso flash rock di Close to the Edge o Dark Side of the Moon in favore di un romanticismo temprato da Friedrich e dal Faust della notte di Valpurga; preferendo le streghe tanto alla povera Margherita che alla divina Elena. Era una musica forgiata dal demone Samiel assieme alle sette pallottole fatate del Franco Cacciatore durante la tempesta notturna della Gola del Lupo.


Schütze, der im Dunkeln wacht,
Samiel, Samiel, hab acht!
Steh mir bei in dieser Nacht,
Bis der Zauber ist vollbracht!
Salbe mir so Kraut als Blei,
Segn'es sieben, neun und drei,
Daß die Kugel tüchtig sei!
Samiel, Samiel, herbei!

Proteggi, tu che vegli nell’oscurità,
Samiel, Samiel, presta attenzione!
Stammi vicino in questa notte
finché l’incantesimo è compiuto!
Consacrami erbe e piombo,
benedicile sette, nove e tre volte,
perche le pallottole siano valide

IMMAGINI

Amon Duul II - Phallus Dei (Liberty, UK 1969)
Bozzetto di scena per “Il franco Cacciatore” – Atto II (1822, Weimar)

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