domenica 20 gennaio 2013

Frammento #12 Isola di Taiwan - Comando 4° MSIG, Divisione Guerra Psicologica - 27-09-2034


Frammento #12 Isola di Taiwan - Comando 4° MSIG, Divisione Guerra Psicologica - 27-09-2034



Si Bona Suscepimus De Manu Dei, Mala Quare Non Suscipiamus?
“E’ latino signor Anderson; una frase della Bibbia. Il Libro di Giobbe. Non lo conosce? Significa più o meno Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male? Una domanda retorica, certo.”
La voce rimbombava nell’ampio corridoio ospedaliero e plastificato.
In realtà avevamo ordine di recarci al comando dal colonnello Berenger. Una segretaria rugosa con occhiali d’avorio ci ha sibilato che dovevamo prima venire qui, alla sede operativa della Psyop; poi è strisciata dentro un piccolo ufficio buio. Così ora io, John e Ray siamo in questa costruzione moderna; bianco, vetro e acciaio; una tecnologica architettura da futurista fazenda sud californiana, con tanto di vasca quadrata al centro del patio e alberi di banane all’interno. Un moderno chiostro di gesuiti bellicosi che smerciano strategie e propagande dal monastero. Poi finestroni limpidi che affacciano ai quattro lati. Ci ha accolto una certa Sun-Yo Douprè, sangue misto franco-giapponese, accento indefinibile, vestita come un’hostess su un volo di linea per Bali.
“Prego, da questa parte signori, seguitemi”.
Deve essere la segretaria personale di Crowley e magari non solo quello. Adesso siamo sul primo gradino dell’ampio scalone che porta di sopra, e sulla volta sta scritta quella frase in latino; com’era..? “Se da Dio accettiamo il bene, perché non accettiamo anche il male?
“Cioè, esiste un male necessario. Esiste un Dio col potere, anzi il dovere, di infliggere dolore, per perseguire i suoi scopi, cercare di farci crescere, progredire; migliorare. Si può operare il male, ove necessario”.
Le parole scemavano come portate via dal vento, per poi ritornare a posarsi sulle nostre spalle, nelle orecchie. Ci guardiamo attorno con la bocca chiusa e gli occhi involontariamente sbarrati; una strana sensazione nello stomaco; forse l’odore nauseante di diluente per vernice che si respira in tutto l’edificio.
“Ma perdonatemi; io non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Benjamin Crowley”.
Ma era ovvio; al primo sguardo. Capelli sottili, lisci, scuri, pettinati sulla fronte come un mite Francescano che avesse frequentato Wall Street nei rampanti anni ’80. Occhiali piccoli, una barba brizzolata, curata. Nessun camice; nessuna divisa. Ad alcuni è concesso; Crowley ha l’attitudine di chi non ha aspettato il benestare di nessuno. Elegante, abito scuro ma informale, penna nel taschino. Nessuna cravatta. Difficile dargli un’età. Potrebbe avere cinquant’anni come il doppio, stando alle sue imprese. Pronuncia il none “Benjamin” alla francese, probabilmente solo per vezzo; Bensciamèn.
“Temo abbiate già sentito parlare di me. In certi reparti pare io sia l’argomento di discussione preferito tra i  curiosi”. Una piccola tensione, labbra tirate. Garner sta per abbozzare una risposta, non fa in tempo.
Temo, perché di solito le chiacchiere sono solo una tremenda aberrazione della realtà, è una cosa a cui mi sono dovuto abituare, a fatica in realtà”.
Gli camminiamo dietro, attraversando l’ampia hall soleggiata; un salone dell’Hilton piuttosto che un comando militare. C’è la stessa aria artificiale degli aeroporti, se non fosse per quel fastidioso sentore di diluente chimico.
“Certo le vicende iraniane mi hanno lasciato una sovraesposizione imbarazzante ed indesiderata; non lo nego: ci ho messo del mio” ridendo, sembrava di gusto.
“E credetemi, quante esagerazioni sono state scritte! Pensare che tutto partì con il sequestro di un vagone di meth nel New Mexico. Normalmente le sostanze stupefacenti sequestrate vanno inventariate e subito distrutte, ma… sapete, metanfetamina! Una produzione complessa, tanti prodotti chimici diversi da assemblare, non senza rischi. Occorre una manodopera altamente specializzata. Prodotta poi a nord del confine, probabilmente da liberi cittadini americani. E devo aggiungere che era di una qualità, come dire, notevole. Niente a che fare con la spazzatura che potete comprare con 10 dollari a Ensenada o Juarez”.
Il tono della sua voce era come illuminato da una pulsante vena mistica.
“Il mio ufficio non ha fatto altro che avanzare una proposta: utilizzarla per impieghi di controspionaggio e antiterrorismo; al giorno d’oggi la parola antiterrorismo schiude porte d’ogni tipo. E’ un abracadabra. Potente”. Un latente compiacimento gli percorre il volto; una melliflua espressione di superiorità auto inflitta.
“Ma io, sapete, io non do ordini. Non firmo mai nulla, eccetto i fogli orari di chi lavora in questa struttura. No; voi dovete guardare a me come un suggeritore, come quel personaggio che sta nella buca sotto il palco e imbecca gli attori. Io non do ordini. 

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